Massoneria e pubbliche funzioni: tra libertà di associazione e dovere di trasparenza

Vi sono forme di appartenenza che sembrano sopravvivere al tempo, come reliquie di una società che amava il mistero più della chiarezza e il simbolo più della parola. Tra queste, la Massoneria continua a evocare un immaginario di riti, segni e fratellanze che mal si concilia con la trasparenza che il mondo contemporaneo pretende da chi esercita pubbliche funzioni. È come se due epoche si sfiorassero senza incontrarsi: quella della discrezione iniziatica e quella della luce amministrativa. Eppure la tensione fra il diritto all’appartenenza e il dovere di chiarezza non è una disputa d’archivio, ma una questione viva che tocca il nucleo della democrazia moderna: la fiducia tra cittadini e istituzioni.

Per comprendere i termini della questione occorre partire dalla libertà di associazione, scolpita nell’articolo 18 della Costituzione come espressione della libertas personae, diritto individuale e collettivo insieme, che consente a ciascun individuo di unirsi ad altri per fini leciti, nel rispetto della legalità repubblicana. Ma lo stesso articolo, nella sua seconda parte, vieta le associazioni segrete, segnando una linea di demarcazione netta fra la fisiologia del pluralismo associativo e la patologia dell’occultamento.

In questa prospettiva, la nozione di associazione segreta non può essere lasciata a una definizione meramente sociologica o intuitiva. Essa non coincide con l’idea di un’associazione semplicemente riservata o non pubblicamente esposta, ma presuppone — secondo la dottrina e la giurisprudenza costituzionale formatasi sull’art. 18, comma 2, Cost. — la compresenza di due elementi: da un lato, un’opacità strutturale, data dall’occultamento dell’organizzazione interna, della composizione e degli scopi mediante strumenti idonei a sottrarsi al controllo pubblico; dall’altro, l’attitudine a produrre interferenze occulte sul funzionamento di organi costituzionali o amministrativi. È proprio questa capacità di generare un rischio sistemico per l’equilibrio e la trasparenza dell’azione pubblica a rendere l’associazione segreta incompatibile con l’ordinamento democratico e a giustificare il divieto posto dalla Costituzione.

Quella norma, letta oggi, sembra ancora intrisa dello spirito costituente, che volle preservare il nuovo Stato democratico da ogni rigurgito di poteri paralleli, memore delle esperienze del ventennio e dei suoi apparati occulti. L’eco di quel divieto non si è spenta: anzi, riaffiora ogni volta che si parla di poteri invisibili, di fedeltà doppie, di legami che sfuggono al controllo pubblico e rischiano di insinuarsi tra le maglie delle istituzioni.

Se l’articolo 18 tracciava il confine teorico tra libertà e segretezza, il legislatore, nel 1982, tornò a misurarsi con questo tema con la legge n. 17, che sciolse la loggia P2 e vietò la ricostituzione di associazioni segrete che, «anche all’interno di altre associazioni palesi», perseguissero fini politici o interferissero con l’esercizio delle pubbliche funzioni. La ratio era chiara: assicurare che la fedeltà alla Repubblica non potesse essere offuscata da vincoli di fratellanza coperti da segreto. Non a caso la norma punisce non tanto l’appartenenza in sé, quanto l’occultamento e la struttura gerarchica che sfugge a ogni controllo. È un diritto che non si limita a disegnare confini, ma che chiede visibilità: la democrazia non teme l’organizzazione, ma teme l’invisibilità del potere. La vicenda della P2, che fu insieme politica, morale e istituzionale, lasciò una ferita nel tessuto repubblicano, rafforzando la consapevolezza che non è sufficiente la legittimità formale, ma serve una legittimazione sostanziale, alimentata dalla fiducia che i cittadini ripongono nella trasparenza di chi li governa e li giudica.

Proprio in questa dialettica si inscrive la tensione permanente tra due principi di pari rango costituzionale: la libertà associativa e la fides publica, intesa come bene giuridico funzionale alla trasparenza e all’imparzialità dell’azione amministrativa e giudiziaria. Quest’ultima rappresenta un presidio essenziale, senza il quale il diritto si ridurrebbe a mera procedura e l’autorità perderebbe la sua aura di legittimità. In più occasioni la Corte costituzionale ha ricordato che il diritto di associarsi non è illimitato, ma deve essere bilanciato con le esigenze di corretto funzionamento delle istituzioni e con i doveri di chi esercita funzioni pubbliche (ubi officium, ibi onus).

Eppure, se si osserva il panorama attuale, si comprende come quel bilanciamento sia tornato ad essere materia viva e controversa. Negli ultimi anni, infatti, sono emersi casi – specie in alcune regioni del Mezzogiorno, come Calabria e Sicilia – in cui inchieste giudiziarie hanno rivelato la presenza di magistrati, avvocati e amministratori pubblici iscritti a logge massoniche non dichiarate, in un intreccio di appartenenze che ha suscitato interrogativi profondi sulla compatibilità fra fraternità iniziatica e servizio alla cosa pubblica. Queste vicende hanno dimostrato che il problema non risiede nell’appartenenza in sé, ma nella sua opacità, che finisce per generare asimmetrie relazionali difficilmente conciliabili con la fiducia istituzionale. In Sicilia, il dibattito approdò perfino all’Assemblea Regionale, con una proposta di legge che imponeva agli eletti di dichiarare eventuali appartenenze massoniche, richiamando il principio di trasparenza come forma di prevenzione etica più che di sanzione giuridica.

Ma se l’Italia vive questo nodo con un retaggio storico di diffidenza verso il segreto, altri ordinamenti ne offrono letture differenti. Nel Regno Unito, per esempio, la Massoneria è pienamente lecita e la stessa magistratura, in passato, ha chiesto ai propri membri di rendere pubblica l’appartenenza, senza che ciò fosse interpretato come indice di illiceità o deviazione. In Francia, invece, la discussione è periodicamente riaccesa dai rapporti fra politica e logge, soprattutto in relazione al principio di laicità e alla necessità che la sfera pubblica rimanga neutra rispetto a qualunque consorteria ideologica. In ambito europeo, dunque, si delineano due modelli: quello anglosassone, che tutela la libertà associativa attraverso la trasparenza, e quello continentale, che tende a porre limiti più severi per proteggere la neutralità delle istituzioni. L’Italia si colloca in una posizione intermedia, sospesa tra la memoria del sospetto e il bisogno di fiducia, in un equilibrio fragile che deve essere continuamente riaffermato.

Sul piano deontologico, il conflitto si fa concreto. Il magistrato che aderisca a una struttura associativa a carattere iniziatico, e che poi si trovi a giudicare una causa patrocinata da un “fratello” di loggia, si muove in un territorio minato. L’obbligo di astensione, previsto dall’articolo 51 del Codice di procedura civile e dall’articolo 36 del Codice di procedura penale, nasce per prevenire non solo il rischio di parzialità effettiva, ma anche il sospetto di essa. Secondo gli indirizzi consolidati del Consiglio Superiore della Magistratura, anche la mera immagine di incompatibilità è idonea a compromettere la credibilità dell’ordine giudiziario. E qui la questione non è più di diritto, ma di fiducia: l’imparzialità non è solo un comportamento, ma anche un dato percepito.

In questa prospettiva, la partecipazione a una consorteria riservata – quale la Massoneria – contrasta con il principio d’imparzialità e con la dignitas officii. Immaginiamo, per ipotesi, un giudice che debba pronunciarsi su una controversia civile in cui l’avvocato di una parte risulti affiliato alla medesima loggia. Anche se quel magistrato fosse interiormente integerrimo, e la decisione giuridicamente corretta, il sospetto che una fratellanza segreta possa aver influito su valutazioni o tempistiche è sufficiente a corrodere la fiducia dei cittadini. È un danno simbolico, ma irreparabile: la giustizia, per essere credibile, deve apparire limpida, e l’ombra è già colpa.

Il vero discrimine, tuttavia, non consiste in un divieto normativo di appartenenza – che l’ordinamento non prevede in via astratta – ma negli effetti che tale appartenenza produce sul piano dell’apparenza di imparzialità. L’etica giudiziaria, come interpretata dal CSM, non vieta la partecipazione del magistrato a determinate associazioni, ma impone che nessun vincolo riservato possa risultare idoneo, anche solo potenzialmente, a compromettere la fiducia nella terzietà del giudice. In questo senso, l’affiliazione a una struttura iniziatica, basata su vincoli identitari e rituali sottratti alla verifica sociale, pur astrattamente lecita, può tradursi in una condizione oggettivamente incompatibile con l’esercizio della funzione, proprio perché genera una zona d’ombra che contrasta con il principio costituzionale di imparzialità. Non a caso, anche la giurisprudenza disciplinare – in applicazione dell’art. 3 del D.Lgs. 109/2006 – qualifica come rilevanti, ai fini dell’indipendenza, quei legami associativi che possono incidere sull’apparenza di imparzialità.

La questione non si esaurisce però con i magistrati.

Un profilo spesso trascurato riguarda infatti gli avvocati. Pur non essendo titolari di una funzione pubblica in senso stretto, essi svolgono un ruolo necessario e costituzionalmente rilevante per l’amministrazione della giustizia (art. 24 Cost.). La loro posizione, pur privata, si colloca in un’area di prossimità funzionale all’esercizio della giurisdizione, e ciò rende rilevante il tema della trasparenza anche per la professione forense.

La loro eventuale appartenenza a consorterie iniziatiche può determinare, in concreto, situazioni di asimmetria relazionale in udienza, specie quando il difensore si trovi davanti un magistrato appartenente alla medesima loggia. Sebbene l’avvocato non sia soggetto agli obblighi di imparzialità propri del giudice, il rischio di una “vicinanza occulta” può alterare la percezione di parità delle parti e minare la fiducia nella funzione difensiva, che si fonda sulla terzietà del foro rispetto ai poteri pubblici. Non è un caso che in alcune indagini territoriali siano emerse reti di relazione opache tra professionisti e magistrati, percepite come idonee – anche solo potenzialmente – a incidere sulla linearità del processo decisionale.

Peraltro, lo stesso ragionamento può estendersi al terreno politico e amministrativo, dove l’esercizio della discrezionalità decisionale rende ancora più delicato il rapporto fra appartenenza e imparzialità. Il sindaco che affidi un appalto, l’assessore che nomini un dirigente o il funzionario che assegni un contributo pubblico operano spesso in ambiti in cui la scelta non è meramente tecnica, ma fiduciaria. In tali contesti, la trasparenza diventa presidio sostanziale della democrazia: non basta che la decisione sia conforme alla legge, occorre che appaia scevra da ogni possibile vincolo occulto o da reti relazionali non dichiarate. Anche qui, come per il magistrato, non è in discussione la correttezza soggettiva, ma la credibilità percepita dell’atto. La discrezionalità amministrativa, se esercitata in condizioni di opacità, si trasforma in potere personale e mina la legittimazione dell’autorità pubblica. È per questo che il legislatore, con il D.Lgs. n. 33 del 2013 e il D.Lgs. n. 39 del 2013, ha imposto regole sempre più rigorose in materia di conflitti d’interesse e obblighi di dichiarazione, nella consapevolezza che la fiducia pubblica si alimenta solo nella visibilità delle scelte. L’amministratore, come il giudice, non deve soltanto essere imparziale, ma anche mostrarsi tale, perché nella Repubblica della trasparenza la discrezionalità non è privilegio, ma misura della responsabilità.

In tale quadro, la gestione dei conflitti d’interesse deve essere guidata dal principio di proporzionalità: non ogni legame richiede misure drastiche, ma soltanto quelli che, effettivamente, possono minare l’imparzialità. Accanto a ciò, si colloca la categoria dell’incompatibilità “potenziale”, come definita dalla dottrina, secondo cui il semplice accumulo di poteri o appartenenze contestuali può generare un rischio percepito di conflitto, sufficiente a compromettere la fiducia pubblica. È questo insieme di regole e cautele che consente di tradurre in pratica il principio secondo cui la discrezionalità amministrativa, pur necessaria, deve sempre apparire libera da influenze occulte e visibile nella sua correttezza, garantendo così non solo l’effettiva imparzialità, ma anche la percezione di trasparenza indispensabile alla legittimazione delle istituzioni.

Qualcuno potrebbe però obiettare che anche l’iscrizione ad altre associazioni – come Rotary, Lions o altre organizzazioni filantropiche di servizio alla comunità – crei legami personali. Ma il parallelismo è solo apparente. In quelle realtà, l’appartenenza è pubblica, gli scopi dichiarati, la struttura trasparente. Non vi è vincolo iniziatico né giuramento di segretezza. La differenza, più che giuridica, è assiologica: la prima esprime una forma di socialitas civile, la seconda una fratellanza rituale che pretende riservatezza e fedeltà esoterica. È qui che si coglie la distanza tra la civitas e il tempio, tra l’agorà e la loggia, tra la Repubblica come spazio di confronto e la confraternita come luogo di riconoscimento. Il problema, dunque, non è l’appartenenza, ma la sua opacità.

Non è però un caso che il legislatore, con un realismo giuridico che spesso precede la teoria, abbia previsto l’obbligo di astensione anche nei casi di semplice commensalità abituale, riconoscendo che perfino il condividere con regolarità una mensa può generare un dubbio di imparzialità. Se il diritto considera rilevante un rapporto tanto ordinario, quanto più lo sarà un vincolo iniziatico che si fonda su giuramenti e su un senso di appartenenza spirituale e simbolica. La differenza non è solo di grado, ma di natura: la commensalità si dissolve nella vita civile, la fratellanza massonica tende invece a permanere come legame identitario e a rivendicare una propria area di riservatezza rispetto al giudizio pubblico.

Sul piano normativo, l’esigenza di trasparenza si è rafforzata con il decreto legislativo n. 33 del 2013, che ha introdotto il principio della ratio reddenda – o, come si dice oggi, della accountability – quale regola generale dell’amministrazione aperta. Il pubblico funzionario non solo deve essere imparziale, ma deve poter dimostrare di esserlo: un’etica della visibilità che integra e supera la tradizionale dimensione della opacità burocratica. Nella prospettiva contemporanea, la trasparenza non è più un adempimento, ma un valore strutturale dell’azione pubblica, un criterio di legittimazione che opera prima ancora della decisione amministrativa.

Si può distinguere, a questo proposito, tra tre livelli di trasparenza: quella istituzionale, garantita dalle dichiarazioni obbligatorie; quella sociale, che consente la conoscibilità pubblica dei dati e delle relazioni; quella etica, che affonda le radici nella disclosure volontaria e nella responsabilità personale, ossia nella scelta di rendere visibili i propri legami anche quando non è imposto dalla legge.

Da qui discende anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato che, in più occasioni, ha legittimato l’obbligo per determinate categorie di rendere dichiarazioni sull’appartenenza a logge o confraternite, in nome della prevenzione dei conflitti d’interesse e della salvaguardia dell’imparzialità amministrativa. Si tratta di una visione che sposta l’asse dal controllo alla fiducia, perché ciò che è dichiarato può essere giudicato, ma ciò che è occulto genera diffidenza.

Proprio in questo solco, negli ultimi anni, si è riacceso il dibattito intorno a una prassi peculiare: la presunta consegna, da parte delle logge massoniche, di elenchi nominativi degli affiliati alle Prefetture o al Ministero dell’Interno. La notizia, più volte rilanciata da organi di stampa e oggetto di accese controversie, si fonda su richieste di trasparenza provenienti talvolta da Commissioni parlamentari d’inchiesta – come quella Antimafia – che, nell’intento di prevenire infiltrazioni occulte nella vita pubblica, hanno domandato agli ordini massonici l’elenco dei propri iscritti. Alcune obbedienze, come la Gran Loggia Regolare d’Italia, hanno dichiarato di trasmettere periodicamente tali elenchi alle autorità ministeriali, mentre altre hanno contestato la legittimità di simili richieste, invocando la tutela della privacy e la libertà associativa garantita dall’articolo 18 della Costituzione. Il quadro che ne emerge è disomogeneo, a tratti incerto, oscillante tra la volontà di trasparenza e il timore di stigmatizzazione. Ed è proprio questa ambiguità che merita una riflessione più ampia.

Il dibattito rivela una contraddizione strutturale: la richiesta di trasmettere elenchi alle autorità pubbliche rimane, in fondo, una forma di “trasparenza verticale”, che non giunge al cittadino e non realizza quella fiducia diffusa che il sistema democratico richiede. È una trasparenza “di palazzo”, più vicina alla logica del controllo che a quella della accountability pubblica.

In un’epoca caratterizzata dall’accesso civico generalizzato e dal Freedom of Information Act, il FOIA non è solo uno strumento procedurale: esso incarna un principio di accountability democratica, che sposta il baricentro della trasparenza dall’autorità al cittadino. L’accesso civico permette infatti non solo di conoscere i dati, ma di valutare l’operato della pubblica amministrazione, esercitando una forma di controllo partecipativo e prevenendo conflitti d’interesse e discrezionalità opaca. In questo senso, la trasparenza non è mera pubblicazione di informazioni, ma attivazione di fiducia diffusa: ciò che è reso conoscibile può essere scrutinato e giudicato, mentre ciò che rimane occulto genera inevitabilmente sospetto e sfiducia. In tale contesto, l’idea dell’elenco riservato consegnato a un’autorità appare una forma di trasparenza asimmetrica che tutela la conoscenza istituzionale ma non realizza quella fiducia diffusa che costituisce la vera essenza della fides publica.

Se la democrazia richiede forme elevate di conoscibilità, allora la riservatezza amministrata non basta. Si rischia, paradossalmente, di trasformare il controllo in segreto di Stato, replicando proprio quella cultura dell’occultamento che si vorrebbe superare. Al tempo stesso, non si può ignorare il diritto alla riservatezza dei singoli affiliati, che restano cittadini titolari di diritti di libertà e protezione dei dati personali. Va anche sottolineato il diritto alla reputazione delle associazioni stesse: la divulgazione indiscriminata di elenchi potrebbe ledere l’immagine e la dignità di un gruppo costituzionalmente legittimo, come evidenziato dalle linee guida del Comitato europeo per la protezione dei dati (EDPB) e dalla normativa europea sul trattamento dei dati personali. È opportuno ricordare che il GDPR non riconosce un “diritto all’anonimato” in senso tecnico, ma tutela la protezione dell’identità e dei dati personali attraverso i principi di minimizzazione, pertinenza e necessità, che impongono di bilanciare trasparenza e riservatezza in modo proporzionato.

In questa tensione fra diritti fondamentali e tutela dell’interesse pubblico si inserisce una riflessione più ampia sulla postura etica delle istituzioni. La trasparenza non è un dovere “poliziesco”, ma un principio di civiltà giuridica: è la forma contemporanea della fides publica. Lo Stato costituzionale non pretende di conoscere ogni relazione privata, ma pretende che nessun potere si sottragga alla visibilità democratica, specie quando incrocia l’esercizio di funzioni pubbliche. Il punto critico non è l’esistenza della Massoneria, ma la sua persistenza in forme rituali e simboliche che — con ironia — appaiono oggi più affini ai “grembiulini” di un’altra epoca che alla cultura moderna dell’amministrazione aperta.

Il vero discrimine è dunque la sovrapposizione fra appartenenza riservata e potere istituzionale, che rischia di generare spazi grigi in cui la legalità formale non coincide più con la legittimità sostanziale. Quando un magistrato, un amministratore o un ufficiale pubblico assumono decisioni che richiedono non solo legalità, ma anche apparenza di imparzialità, qualsiasi vincolo fiduciario di natura iniziatica — impenetrabile ai terzi e sottratto alla verifica sociale — diventa oggettivamente incompatibile con l’esercizio della funzione.

Da questa premessa discende una considerazione che reputo inevitabile: per i magistrati, l’appartenenza a consorterie iniziatiche non dovrebbe solo imporre obblighi di astensione più ampi, ma configurare una vera e propria incompatibilità assoluta. È una conclusione che affonda nel principio di indipendenza interna ed esterna della giurisdizione, e che trova eco nella giurisprudenza del CSM: la sola possibilità che un rapporto occulto influenzi, anche indirettamente, il giudizio, è sufficiente a compromettere la fiducia del cittadino nella giustizia. Il modo in cui un giudice appare è parte integrante del suo ruolo: come ammonisce, inter alia, la giurisprudenza europea, la giustizia deve non solo essere imparziale, ma anche apparire tale.

Il problema, naturalmente, non riguarda solo la magistratura. In qualunque settore delle pubbliche funzioni — dalla politica locale alla dirigenza amministrativa — l’appartenenza massonica non dichiarata può determinare zone d’ombra difficili da accettare in un ordinamento che ha elevato la trasparenza a principio generale. L’amministrazione moderna vive di accountability diffusa: l’atto pubblico non è solo espressione del potere, ma è esposto allo sguardo critico della collettività. Per questa ragione, la riservatezza iniziatica si inserisce in un paradigma che non è più quello della burocrazia chiusa, bensì della governance aperta.

È in questo scenario che va interpretato anche il dibattito contemporaneo su possibili obblighi di dichiarazione pubblica per gli affiliati che rivestano cariche istituzionali. Non si tratta di un’operazione punitiva o discriminatoria: la disclosure non è un marchio, ma uno strumento di prevenzione etica, una forma di lealtà repubblicana. Rende visibile ciò che potrebbe incidere sulla fiducia collettiva e restituisce al cittadino la possibilità di valutare. Non elimina il diritto di associarsi, ma impedisce che tale diritto diventi uno schermo per poteri paralleli.

La tensione fra libertà associativa e trasparenza istituzionale, dunque, non può essere risolta con un approccio binario. Essa richiede un equilibrio dinamico, fondato sul principio di proporzionalità e sulla ricostruzione di un’etica pubblica che non demonizza le appartenenze, ma le colloca entro un quadro di visibilità e responsabilità. La Costituzione non vieta la Massoneria; vieta il segreto che diventa strumento di potere. Ed è proprio qui che si colloca il discrimine: non il rito, ma l’opacità; non la confraternita, ma la sua eventuale capacità di interferire — o apparire in grado di interferire — con il corretto funzionamento delle istituzioni.

In definitiva, ciò che emerge è che la questione non è solo giuridica, ma culturale. La Repubblica chiede ai suoi servitori non solo osservanza della legge, ma un surplus etico che permetta alla comunità di riconoscere nel potere pubblico un potere affidabile. La trasparenza non è una virtù accessoria: è la condizione stessa della democrazia. E in questa prospettiva, qualunque appartenenza che si sottragga alla conoscibilità sociale diventa, più che incompatibile, anacronistica.

È forse questo il nodo più profondo: non la rilevanza giuridica della Massoneria, ma la sua difficoltà a conciliarsi con il paradigma contemporaneo della pubblicità amministrativa. Le logge possono continuare a esistere, come previsto dall’articolo 18, ma non possono pretendere che i custodi della cosa pubblica abitino contemporaneamente due mondi: quello della Repubblica aperta e quello della riservatezza iniziatica. La democrazia vive di luce: l’ombra, anche quando non è colpa, è già sospetto. E il sospetto è il nemico più sottile della fiducia istituzionale.

* Avvocato del foro di Taranto
Fonte: Questione Giustizia

La strada per la felicità

A pagina 22 del bellissimo libro scritto da Franco Arminio “La grazia della fragilità”, troviamo un capitolo intitolato “per essere amati dal tempo”. Nelle poche frasi scritte in quella pagina troviamo parole nuove, una vera e propria inversione di visione del nostro modo di essere e di vivere.

Parole che danno poco spazio alla negatività, ma che spingono a guardare il lato positivo del nostro quotidiano con uno sguardo diverso rispetto a quello che siamo abituati a vedere.

C’è una grande considerazione in Franco Arminio di ciò che siamo, partendo però dalle cose più semplici della nostra vita, che sono in grado di proiettarci in una dimensione nuova, attraverso la valorizzazione della bellezza della nostra esistenza.

Franco Arminio ci invita a usare il nostro tempo per il compagno/a, per i figli, gli amici, per accarezzare gli animali, per guardare le piante, per occuparsi del dolore degli altri.

Gli affetti, lo stupore per il creato, l’empatia verso chi si trova nella sofferenza, il sentirsi parte di questa umanità, sono la a visione della vita che Franco Arminio propone, unita a un modo diverso anche di considerare se stessi, avendo stima di noi, fiducia nella nostra personale capacità di saper cambiare per trovare la propria strada.

Franco Arminio chiama la capacità di cambiare “il saper condurre la tua esistenza al buio e per conto tuo, per cercare le tue parole. Chi cerca le sue parole si ammala assai poco”. Un’espressione molto bella che ci dà l’idea dell’unicità di ciascuno di noi, perché le parole, rappresentano le immagini che ognuno in modo diverso fa della sua vita, dei suoi sogni.

Si sogna spesso al buio, durante il sonno, in quella fase del nostro quotidiano dove siamo soli con noi stessi, dove la mente si trova a vivere una nuova dimensione, dove l’anima ci parla con parole diverse, immagini diverse, che sono solo nostre nell’interpretazione che poi siamo in grado di fare e che spesso stridono e divergono dalla nostra fase della vita ad occhi aperti.

L’amore per sé stessi e per gli altri, l’amore per il creato, l’attenzione alla nostra interiorità, la capacità di saper ascoltare quella parte del mondo nascosto dentro noi stessi, sono la ricetta che Franco Arminio ci propone per usare il nostro tempo in modo intelligente.

L’autore usa parole molto belle per spiegarci la sua visione della vita: “chi usa il tempo per ciò che ama, viene amato dal tempo e non resterà mai senza tempo”.

Possiamo tradurre questa sua frase nel cercare di fare le cose che ti fanno stare bene, che non vuol dire fare ciò che ci piace in modo superficiale, ma capire quali sono quelle “parole” che per noi contano veramente e a quelle dare spazio.

E’ una ricerca nel profondo, perché vuol dire ascoltare la propria interiorità, gli affetti che veramente contano, le cose importanti che il mondo esterno ci offre, il nostro atteggiamento verso la natura, che cosa per noi vuol dire bellezza, come vogliamo curare la nostra conoscenza e il nostro sapere, lo sguardo che vogliamo avere verso la vita.

In un mondo che ci offre una visione brutale di sé, dove il più forte sembra dominare e il più debole soccombere, dove le disuguaglianze si ampliano e dove l’umanità sta mettendo a rischio la sua stessa sopravvivenza su questo pianeta, Franco Arminio ci propone la gentilezza, la ricerca dell’armonia con la natura, l’amore come unica strada per una vita degna di questo nome.

Una strada da seguire per trovare la nostra personale felicità…

Usa-Venezuela, Pete Hegseth rischia una accusa per crimini di guerra: il baratro dei nostri Stati di diritto è tutto qui

Considerare crimine di guerra il “secondo colpo” nella vicenda che vede coinvolti il Ministro della Guerra Usa, l’ex anchorman di Fox Tv Pete Hegseth insieme all’ammiraglio Frank Bradley, leggendario ex navy seals avvistato in Italia durante gli scoppiettanti anni ’90, non è una buona notizia. Contro l’arbitrio del potere i democratici hanno il dovere di fare di più, altrimenti la partita è persa.

Di fronte a dei presunti criminali la regola generale nelle società che si ritengano liberali e garanti dei diritti fondamentali degli individui prevede di indagarli, arrestarli, processarli, condannarli. Il tutto ad alcune condizioni fissate nelle carte costituzionali e nei trattati internazionali ai quali facciamo riferimento, tipo: che le prove a carico siano raccolte in modo corretto, che all’accusato sia garantito il diritto a difendersi adeguatamente, che il giudice sia imparziale… fino ad escludere che tra le punizioni possa esserci quella capitale (non vale per tutti) e che la detenzione mai sia disumana e degradante, anzi apra alla possibilità di un riscatto sociale (idem come sopra).

Di certo non è previsto che la reazione di uno Stato liberale, democratico, fondato sul rispetto dei diritti umani, possa essere quella di ammazzarli preventivamente, senza processo. Questo tipo di reazione rimanderebbe infatti ad un esercizio del potere talmente arbitrario da espellere quello Stato dal paradigma stesso di Stato di diritto e pertanto dovrebbe essere considerata una reazione culturalmente e politicamente inaccettabile. Uno Stato che adoperasse in questo modo il proprio potere letale nei confronti di presunti criminali andrebbe catalogato alla stregua di un clan mafioso.

Ma ecco che a sovvertire queste premesse ci ha pensato il Ministro della Guerra degli Usa, il quale ha deciso che la “guerra” contro i presunti narcotrafficanti che dalle coste sudamericane partono con natanti di ogni tipo puntando a quelle statunitensi e quindi al ricco mercato nordamericano dovessero essere semplicemente bombardati, cioè sterminati senza neppure tentare il fastidio di arrestarli. L’ammiraglio Bradley ha eseguito il compito diligentemente e le stragi sono iniziate nel settembre di quest’anno, senza destare particolari reazioni. L’abitudine all’orrore peraltro è uno degli obiettivi perseguiti scientificamente dagli architetti della guerra in ogni dove.

Oggi qualcosa pare muoversi e l’amministrazione Usa potrebbe essere chiamata a dare qualche risposta al Congresso, ma su cosa nello specifico? Sulla illegittimità del “secondo colpo”, perché sparare altri due missili contro una imbarcazione già precedentemente colpita, sulla quale però non erano tutti morti ma alcuni erano “soltanto” feriti o agonizzanti – e l’imbarcazione stessa era ormai naufragata – integrerebbe un “crimine di guerra”. Capite perché non è una buona notizia. Prevedo che il corto circuito morale e giuridico raggiungerà il suo apice quanto l’amministrazione Usa proverà a giustificarsi negando che possa essere stato commesso un qualunque “crimine di guerra” dal momento che contro i narcos la “guerra” dichiarata è da intendersi in senso metaforico!

Il baratro nel quale i nostri pallidi Stati di diritto stanno precipitando è tutto qui, nello sdoganamento spudorato dell’arbitrio (letale) del potere, che annienta la minaccia presunta senza nemmeno scomodarsi a nasconderla con qualche sofisticata strategia depistante: pensate quanti grattacapi a suo tempo per eliminare Aldo Moro, per tenere il Paese sui binari “giusti” a colpi di bombe sui treni, nelle banche, nelle piazze, per trovare scivolose convergenze di interessi con mafiosi di ogni tipo pronti a rimuovere ostacoli al potere altolocato (e impunito!). Non è cambiata la natura dell’arbitrio, sta cambiando la sua auto narrazione e le difese culturali sono sempre più logorate dalla colonizzazione dell’immaginario perseguita da chi con la violenza si ingrassa.

Lo “spettro” di questo utilizzo arbitrario del potere è ampio e comprende la sproporzione con la quale il Viminale ha colpito tanto l’imam di Torino Shahin, quanto gli operai in sciopero a Genova ieri o la progressiva invasione delle scuole da parte del lessico militare: sfumature di nero, alleate nell’operazione già richiamata di abituare progressivamente all’orrore, che ha ovviamente nella guerra-guerreggiata il modo più potente e allo stesso tempo il fine ultimo.

La resistenza alla colonizzazione dell’immaginario oggi passa anche dai giovani attivisti che in maniera nonviolenta a Torino stanno contestando la quinta strepitosa “festa” internazionale delle armi-spara-tutto, la fiera che celebra fatturati in crescita iperbolica per chiunque si occupi del modo più inevitabile di uccidere. Grazie! Anche così restiamo umani.

Il Fatto Quotidiano, il blog di Davide Mattiello

Un Natale che “Libera” speranza

Mafie e corruzione sono una minaccia alla libertà e alla dignità delle persone, continuano a rubare sogni e soffocare opportunità.

Questo Natale, la tua azienda può fare la differenza: con Libera dona speranza a chi ogni giorno costruisce futuro.

Scegli Libera per costruire insieme alla tua azienda una società libera da mafie e corruzione.

Un regalo buono in tutti i sensi: scopri i pacchi di Libera Terra!

I pacchi di Libera Terra sono un’opportunità per sostenere i progetti dell’associazione e gustare prodotti autentici, coltivati sui terreni liberati dalle mafie.

Parte del ricavato sarà destinato a ExtraLibera, il nuovo centro multimediale di Libera a Roma, nato in un ex sala bingo confiscata. Uno spazio immersivo e aperto, dove memoria e linguaggi digitali si intrecciano per raccontare mafie, corruzione, giustizia e diritti, offrendo alle nuove generazioni un luogo di incontro, conoscenza e creatività.

Scegli tra le diverse opzioni disponibili o componi le tue confezioni regalo fai da te →  https://bottegaliberaterra.it/idee-regalo/

Augura Buone feste ai tuoi dipendenti, fornitori e partner con i biglietti di Natale di Libera

Insieme ai tuoi auguri, un messaggio unico di solidarietà.

Scegli tra le proposte che abbiamo pensato quella che più ti piace: ogni biglietto è personalizzabile con il logo della tua azienda.

Dai voce alla memoria: sostieni il Centro di Documentazione “Roberto Morrione e Santo Della Volpe”

È la cultura che dà la sveglia alle coscienze, senza conoscenza non può esserci responsabilità Luigi Ciotti

Libera ha inaugurato a Roma, in un bene confiscato, il primo Centro di Documentazione su mafie, corruzione e movimenti antimafia in Italia e nel mondo.

Uno spazio vivo, che raccoglie oltre 4.000 volumi, documenti, immagini e video aperto gratuitamente a studentə, ricercatorə e cittadinə, per custodire e dare voce alla memoria storica — di Libera e dell’antimafia sociale — e per conoscere nel profondo i fenomeni criminali e affrontarli insieme.

Come puoi sostenere il Centro Documentazione  e valorizzare l’immagine della tua azienda.

  • Sostenendo l’avanzamento della catalogazione del materiale.
  • Promuovendo la digitalizzazione del materiale.
  • Donando per l’acquisto di materiale d’arredo come gli scaffali.
  • Aiutandoci ad ampliare il nostro fondo di volumi.

Valore per te

Visibilità: la tua azienda testimonierà il suo impegno e la sua mission.

Visita il sito: https://centrodidocumentazionelibera.archiui.com/

Dai forza al cambiamento: Amunì 

Amunì nasce nel 2011 in Sicilia per giovani tra i 16 e i 20 anni, sottoposti a procedimento penale, ma che scelgono un percorso di riparazione volto a estinguere il reato.Fino ad oggi, oltre 1.500 ragazze e ragazzi hanno partecipato a decine di percorsi in tutta Italia.

Come puoi sostenere Amunì:

  • Contribuendo all’attivazione di nuovi percorsi artistici, culturali e sportivi (es. murales, Kamishibai, teatro sociale, attività in barca a vela) su tutto il territorio nazionale, talvolta anche all’interno di Istituti penali minorili, per permettere loro di sviluppare competenze e abilità nuove, fare gruppo, rispettare le regole ed entrare in contatto con contesti diversi da quelli in cui sono cresciuti.
  • Promuovendo azioni di rigenerazione urbana e ambientale dei luoghi di memoria, spesso abbandonati e trascurati.
  • Donando buoni in “chilometraggi” per i viaggi in treno o in autobus, di formazione e conoscenza che questi giovani fanno insieme agli educatori e volontari di Libera.

Valore per te

  • Visibilità in termini di partecipazione sociale e civile, diventando promotore di un progetto importante.

Non fermiamoci al Natale.

Resta al nostro fianco ogni giorno, per costruire insieme una società libera da mafie e corruzione.

Contattaci: aziende@libera.it / tel 06 697703 52 – 06 697703 49


Fai una scelta Libera!

Insieme, costruiamo un futuro libero da mafie, corruzione e indifferenza.

Aderisci

Viviamo in un tempo di conflitti, disuguaglianze, ingiustizie. Un mondo che divide tra chi ha tutto e chi resta escluso, tra chi alza muri e chi prova ad abbatterli. Dentro queste fratture, le mafie trovano spazio:speculano sulle guerre, soffocano comunità, sfruttano le fragilità, corrompono economie e istituzioni.

Per questo resistere oggi significa scegliere, agire, esserci.

  • Scegliere di non voltarsi dall’altra parte.
  • Agire con coraggio nei territori, nelle scuole, nelle piazze.
  • Esserci come comunità che non accetta indifferenza né rassegnazione.

Con la tua tessera 2026, continueremo insieme a custodire la memoria delle vittime innocenti di mafie, costruire percorsi di riscatto sociale e promuovere una legalità fondata su uguaglianza, dignità e diritti.

La tua tessera non è solo un gesto simbolico: è il segno che non ci arrendiamo, che trasformiamo la rabbia in responsabilità, la paura in speranza condivisa.

È dire “no” a mafie, corruzione e violenza. È dire “sì” a un futuro di giustizia e di pace.

Possiamo darti un consiglio?
Scegli l’opzione  Tessera + rivista lavialibera
Con questa scelta dai ancora più forza alla voce di Libera.
Ogni numero di lavialibera è una bussola per orientarsi nell’attualità: inchieste, dati inediti, analisi, interviste e, in esclusiva, l’editoriale di Luigi Ciotti.

Aderisci a Libera

Mala. Roma criminale. Nuova edizione

Mala è un viaggio al termine della notte, la più accurata inchiesta sulla criminalità organizzata capitolina degli ultimi anni, che ha mostrato il mondo segreto dei veri padroni della città eterna e che presto approderà sugli schermi.

Torna in libreria in questa nuova edizione, speciale e aggiornata, perché la guerra tra le bande continua ancora. In gioco, oggi come ieri, c’è la posta di sempre: prendersi Roma. La pace è finita e ora le gang sono in guerra.

Sotto il manto della grande bellezza, nel sottosuolo perso e dannato di Roma scorre un fiume di violenza. Sequestri, pestaggi, torture e omicidi si susseguono. Lo scontro infuria, invisibile agli occhi dei più. È così da quando, il 7 agosto 2019, Fabrizio Piscitelli detto Diabolik, capo degli Irriducibili della Lazio e ai vertici della “batteria di Ponte Milvio”, viene freddato da un sicario che gli spara alla testa, mentre se ne sta seduto su una panchina al parco degli Acquedotti.

Ma Diabolik è solo la punta dell’iceberg di quella rete di organizzazioni criminali che governano sul territorio: connection tentacolare che comprende il cartello di Michele ’o Pazzo, la malavita storica e quella emergente, e poi il sodalizio, spietato e potente, degli albanesi, che sono cresciuti all’ombra di Piscitelli e sono diventati i Signori del narcotraffico. Così, la vendetta è l’innesco di un conflitto senza quartiere per il controllo delle piazze di spaccio, dal litorale ostiense a Tor Bella Monaca: un business gigantesco in cui tonnellate di coca muovono milioni.

In queste pagine, voci urlano prima di spegnersi nel buio, armi sparano in pieno giorno, la droga invade le strade, i soldi si prestano a strozzo e i debiti si saldano sempre: a qualunque costo e spesso nel peggiore dei modi.

Con il rigore della cronista di razza, Francesca Fagnani esamina le fonti giudiziarie, collega i fatti, ricostruisce antiche alleanze e recenti rivalità che definiscono la geografia criminale della Capitale. Mala è un’inchiesta documentatissima, implacabile e travolgente come una serie tv sui narcos sudamericani, che svela chi sono i nuovi padroni di Roma, la città che si diceva non volesse padroni.

Francesca Fagnani
Mala
Roma criminale
Nuova edizione
SEM, Italian Tabloid 2025
Pagg. 256/€ 22,00

Roma 10 dicembre, festa annuale di Articolo 21

Quest’anno la festa annuale di Articolo 21 si terrà il 10 dicembre e sarà incentrata nell’approfondimento della strategia della tensione.

Una data non casuale, per ricordare la strage di Piazza Fontana, l’attentato terroristico avvenuto il 12 dicembre 1969 nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano, che causò la morte di 17 persone.

L’appuntamento è alle ore 17:00 in via Stamira 5 a Roma, la sede nazionale di Libera che aderisce al programma.

Momento clou dell’evento sarà la rappresentazione teatrale “Io so” a cura di Associazione TerraTerra, di e con Elena Ruzza, testo di Davide Rigallo e musiche di Matteo Cantamessa.

Introducono la portavoce e il presidente di Articolo 21, Elisa Marincola e Paolo Borrometi, con Giampiero Cioffredi, responsabile di Libera Lazio e Gian Mario Gillio, giornalista di Riforma-Eco delle valli valdesi.

Dopo lo spettacolo Elisa Signori Rocchelli interverrà sul tema “Quel filo che lega il passato al presente”; a seguire Beppe Giulietti intervista Manlio Milani, coordinatore delle associazioni dei familiari vittime delle stragi. Manlio Milani riceverà il Premio Articolo 21 per il 2025.

Vi aspettiamo. È possibile aderire a questo link.

Articolo 21

I casi Al Buti e Almasri: due ministri, due governi a confronto

Gli spilli possono servire a molte cose. A fissare una foto o un foglietto di appunti su di una bacheca. A tenere provvisoriamente insieme due lembi di stoffa in attesa di un più duraturo rammendo. A infliggere una piccola puntura, solo leggermente dolorosa, a qualcuno che forse l’ha meritata. 

Lo spillo di oggi è riservato ad un confronto impietoso per il nostro Paese. 

«La Corte penale internazionale è una conquista del diritto internazionale, il suo principio fondante non ha perso nulla della sua forza persuasiva, i crimini di guerra non devono restare impuniti. In Germania, anche per via della nostra storia abbiamo una responsabilità speciale nel promuovere questa idea e nell’adempiere a i nostri obblighi ai sensi dello Statuto di Roma».

Queste le parole con cui la Ministra della Giustizia tedesca, Stefanie Hubig, ha commentato la consegna alla Corte penale internazionale di uno stretto sodale del generale Almasri. Khaled Mohamed Ali El Hishri, nome di battaglia Al Buti, che era stato arrestato in Germania nel luglio di quest’anno perché accusato, al pari di Almasri, di torture, abusi, sevizie ed altri reati commessi nella prigione libica di Mitiga.

Il comportamento di piena e leale cooperazione delle autorità tedesche con la Corte penale internazionale e le nitide affermazioni della Ministra della giustizia di quel Paese dovrebbero suscitare imbarazzo e rossore in quanti hanno ancora a cuore la credibilità e l’immagine del nostro Paese all’estero e la sua fedeltà ai patti internazionali sottoscritti, tra cui lo Statuto di Roma.

E’ infatti impietoso il confronto tra la lineare condotta tenuta dalla Germania nel caso Al Buti ed i balbettii, le giravolte, le versioni di volta in volta aggiustate che hanno contrassegnato la condotta delle autorità italiane – a cominciare dal Ministro della giustizia, Carlo Nordio – nel parallelo caso Almasri, conclusosi, com’è noto, con il rapido rimpatrio – in sostanza una liberazione – del generale, anch’egli gravato da pesantissime accuse di crimini contro l’umanità.

A costo di subire l’accusa di essere “antitaliani” – sempre più di frequente rivolta a quanti criticano azioni poco onorevoli del nostro governo – diciamo che i cittadini italiani hanno diritto a vivere in un Paese che, anche in ragione della sua storia, “senta di avere una responsabilità speciale” nel garantire il rispetto del diritto internazionale e non meritano che l’Italia si muova sulla scena internazionale unendo astuzie levantine a manifestazioni di insofferenza verso i patti e gli impegni assunti in ambito internazionale.

Questione Giustizia